Vecchi trucchi

Pubblicato il da johnny7

Siccome il governo a ridosso dai referendum ha fatto marcia indietro sul nucleare e qualcuno giustamente non si fida ricordiamo quando Berlusconi fece lo stesso gioco su un altro referendum che lo riguardava, così come scrisse Marco Travaglio nel libro "Inciucio. Come la sinistra ha salvato Berlusconi. La grande abbuffata RAI e le nuove censure di regime, da Molière al caso Celentano. L'attacco all'Unità a l'assalto al Corriere. (Peter Gomez e Marco Travaglio, prefazione di Giorgio Bocca, 2005, BUR Biblioteca Universale Rizzoli):

 

«Affossate i referendum».
Nel governo Dini, nei due ministeri che davvero gli interessano,  Berlusconi ottiene ottime garanzie. Alla Giustizia va Filippo  Mancuso, un anziano ex magistrato siciliano che vede come il fumo negli occhi i pool di Milano e di Palermo. In compenso,  è un fervido estimatore di Corrado Carnevale e un frequentatore del salotto di Cesare Previti. Alle Telecomunicazioni va il professor Agostino Gambino, già avvocato di Michele Sindona, poi legale della famiglia Formenton (alleata di Berlusconi) nella guerra di Segrate per il controllo della Mondadori, e infine 
prescelto dal Cavaliere come uno dei tre «saggi» per il fantomatico blind trust che nel '94 avrebbe dovuto separarlo dalla Fininvest. Subito dopo aver giurato, Gambino dichiara: «Si deve fare una legge sulle tv». Gli replica Gonfalonieri:
Purché non ci sfascino l'azienda, siamo disposti ad accettare un regolamento e alcune condizioni necessarie per essere considerati più pluralisti, anche se noi crediamo di esserlo già [...]. Realizzare il pluralismo è impossibile, anzi è paradossalmente più facile potendo disporre di tre reti e tanti professionisti di culture diverse. In questo modo ciascuna rete può essere culturalmente orientata verso una diversa area cultural-politica: una di centrodestra, una cattolica e una terza laico-scalfariana. Il fatto è che Berlusconi ha ormai deciso di quotare le televisioni in Borsa per scaricare gli enormi debiti sul mercato finanziario. Ha in mano delle consulenze da cui risulta che, perdendo una rete, il valore del Biscione non si ridurrebbe di un terzo, ma della metà. È insomma essenziale, per la buona riuscita dell'operazione, 
non solo far fallire i referendum, ma anche evitare leggi di qualsiasi tipo sulle tv. Già nel 1993 è partito il cosiddetto progetto Wave (allora chiamato Big Tv) per portare la società in Piazza Affari nel giro di tre anni. In quelle settimane, mentre fervono i preparativi per la discesa in campo del Cavaliere, è nata Mediaset, una piccola società a responsabilità limitata. Il 15 dicembre '93 Mediaset Sri ha incamerato da Reteitalia il comparto che si occupa della compravendita di diritti televisivi. Dodici mesi dopo, al termine di una serie di fusioni per incorporazione e mutamenti
di ragioni sociali, anche Rti (la società titolare delle concessioni televisive di Canale5, Italia1 e Rete4) e Publitalia entrano nel nuovo gruppo Mediaset. L'operazione si perfeziona tra il 16 e il 22 dicembre '94, proprio in coincidenza con la caduta del governo. Berlusconi si sta preparando al futuro. Pubblicamente dice di voler vendere le sue reti per risolvere il conflitto d'interessi, in realtà sta solo cercando di portare a compimento la «fase 1» del progetto Wave,
che prevede l'ingresso di tre nuovi investitori, tramite un aumento di capitale. Così, il 24 marzo 1995, Mediaset Sri si trasforma in Mediaset Spa. Aumenta il capitale sociale a 166 miliardi di lire, incamera il 100% di Elettronica Industriale, la società che si occupa dei ripetitori, e poco dopo fa entrare come nuovi azionisti gli investitori strategici.
Due hanno già forti interessi nelle tv: il magnate dei media tedesco Leo Kirch, che col Cavaliere ha più di una partecipazione incrociata, e il miliardario sudafricano Johann Rupert, che è proprietario tra l'altro di Cartier, Dunhill e Rothmans, ed è appena entrato in Telepiù. Il terzo è il principe saudita Al Waleed. A seguire il progetto di quotazione, accanto al direttore finanziario del gruppo Ubaldo Livolsi, c'è come international advisor la banca d'affari Morgan Stanley di Londra. Fininvest la preferisce a Mediobanca, alla quale affida il compito di quotare solo Mondadori e Mediolanum. Il perché è semplice e verrà spiegato nel 2000 da Confalonieri: È vero, all'inizio l'istituto di via Filodrammatici ha avuto un
ruolo nel collocamento Mediaset: quello di far saltare l'operazione. Vi fu un incontro in una sede importante nel quale i
  rappresentati di Mediobanca ci dissero: «Voi avete un conflitto d'interessi, dovete congelare il 60% del capitale e cambiare tutto il management». Morgan Stanley invece non crea troppi problemi e, a fine '95, riassume i retroscena dell'intera operazione in un documento destinato al Comitato d'impegno per l'investimento. In quelle carte si legge che Kirch, Rupert e Al Waleed, dopo qualche titubanza, hanno valutato Mediaset 5500 miliardi di lire e si sono impegnati ad acquistarne il 25% (1397 miliardi). Il 31 ottobre '95 però Kirch, in grosse difficoltà finanziarie, non riuscirà a sottoscrivere per intero la sua quota azionaria. Così il gruppo di lavoro Wave di Morgan Stanley propone alla casa-madre di prestargli 150 milioni di dollari. Il guaio è che Kirch non è in grado di offrire garanzie serie. Ma, se non trova i soldi, non può sottoscrivere le azioni Mediaset. E, se non le sottoscrive, l'ingresso dei nuovi soci nelle tv del Cavaliere è destinato a saltare. E questo Morgan Stanley e il Cavaliere non se lo possono  proprio permettere. Così si pensa di aggirare il problema (come poi avviene nel novembre '95) prestando formalmente il denaro a Kirch, ma facendolo garantire dal Biscione. Resta il nodo di una «possibile rivelazione al pubblico» dei retroscena del finto prestito:
  Sebbene tutte le parti siano d'accordo nel ritenere che l'operazione sia puramente cosmetica e pertanto non dovrebbe essere resa pubblica, c'è sempre la possibilità di una fuga di notizie [...]. Ciò potrebbe porre a rischio la credibilità dell'intero piano. Ma le cose sono giunte a un punto tale che non ci si può più tirare indietro. Scrivono gli uomini della banca d'affari: È importante per la credibilità del progetto Wave, così come per la potenziale futura carriera politica del signor Berlusconi, che la «Fase 1» dell'investimento appaia completata con successo [...]. La «Fase 1» è la fase critica per lo sviluppo dell'intera operazione ed è importante manifestare la serietà del signor Berlusconi nel ridurre la propria partecipazione in attività mediatiche in Italia. La notizia del progetto di quotazione inizia a circolare ciclicamente  sui giornali a partire dal maggio '93, cioè da quando Berlusconi ha deciso segretamente, ma definitivamente, di entrare in politica. Nel 1995, appena la Corte dice sì ai referendum, il
  leader di Forza Italia comincia però a parlare non di un ingresso in Borsa, ma di una possibile vendita. In effetti, a fine maggio, arriva ad Arcore il tycoon australiano Rupert Murdoch.
  Ma - come annota Morgan Stanley - il Cavaliere respinge l'offerta di «4500 miliardi di lire per l'intera società» perché «il signor Berlusconi non voleva perderne il controllo». La favola della vendita ha quindi un altro scopo, tutto politico: dimostrare che il Cavaliere si liberebbe volentieri del fardello del conflitto d'interessi, ma non può farlo perché nessuno acquisterebbe tre tv sulle quali pende la spada di Damocle di una legge antitrust. Non per niente il 19 aprile '95, intervistato dal settimanale di famiglia «Panorama», Berlusconi dichiara: È un discorso complesso. Pur avendo dato mandato di cedere le mie televisioni, non posso vendere perché proprio chi m'invita a farlo ha creato i presupposti perché ciò non possa avvenire. Mi spiego: nel novembre del '94 ho dato mandato a Fedele
  Confalonieri, presidente della Fininvest, di aprire le trattative per la cessione del nostro polo televisivo. Alcune forze politiche però hanno organizzato tre referendum sulle tv con l'obiettivo solo di distruggere la Fininvest. Bisogna perciò superare con tre no questi referendum, prima che si possa concludere la vendita con un acquirente qualsiasi. Il messaggio è chiaro. Cari partiti, se volete risolvere il mio conflitto d'interessi, lasciate tutto com'è, io poi mi libererò delle mie tre reti. Naturalmente le cose non andranno così. La consultazione, a causa del disimpegno dalla campagna referendaria dei partiti di minoranza, Ds in testa, e della martellante propaganda Fininvest, segnerà una larga vittoria dei No. E un mese dopo, il 19 luglio, verrà ufficialmente annunciato il progetto
  Wave con l'ingresso dei tre nuovi soci, finalizzato allo sbarco di Mediaset in Piazza Affari.

Il grande bluff.
  Il governo Dini fissa i referendum per l'11 giugno '95, subito dopo le elezioni regionali. Ma la campagna per il Sì è quasi inesistente. Salvo rare eccezioni, nella sinistra tutti puntano a portare avanti una trattativa a oltranza col Cavaliere per arrivare a una nuova legge che faccia saltare i referendum. In Parlamento si occupa della cosa l'ex presidente della Camera, il pidiessino Giorgio Napolitano, nominato presidente della Commissione speciale per il riassetto televisivo. Berlusconi, a inizio legislatura, si era profuso in attestati di stima nei suoi confronti, arrivando a stringergli pubblicamente la mano in Parlamento. Solo pochi mesi prima Giuliano Ferrara aveva proposto il suo nome come commissario europeo. Ora però Berlusconi lo definisce alternativamente «comunista» o «ex
 comunista». Al resto pensa la Fininvest: le tre reti private inondano l'etere e le case degl'italiani di spot per il No. Il
  fronte del Sì, invece, non ha una lira per competere e informare i cittadini sulla posta in gioco.
  Il Garante per l'editoria Giuseppe Santaniello, che già in occasione del giudizio di ammissibilità della Consulta aveva ammonito sul rischio che il referendum sulla Mammì non venisse adeguatamente pubblicizzato, interviene di nuovo. Secondo lui il messaggio pubblicitario («Canale5, Italia1, Rete4: meglio che ci siano») trasmesso decine di volte al giorno dalle reti del Biscione è «inesatto e ingannevole». Infatti fa credere che il referendum punti ad abolire le reti Mediaset, mentre la proposta si limita «a perseguire l'obiettivo che nessun soggetto
  possieda più di una rete televisiva nazionale». Santaniello ordina quindi la rettifica. Ma la Fininvest si oppone e si rivolge al Tribunale di Roma per difendere la sua libertà di pensiero: «Le opinioni non possono essere rettificate». I giudici le daranno torto. La reclame alla fine sarà sospesa. La Fininvest però farà di tutto per evitare di dar spazio ai contro-spot. Intanto Vittorio Sgarbi e le altre trasmissioni d'intrattenimento e «informazione» del Cavaliere picchiano duro a favore del padrone, schierando i volti più noti della tv commerciale: Rita Dalla Chiesa, Iva Zanicchi, Paola Barale, Massimo Boldi... Lo spiegamento di forze è impressionante: sugli autobus di Roma compaiono grandi cartelloni con scritto: «Vota No per salvare la televisione privata e la tua libertà di scegliere», «No alla chiusura della tv privata. No alla riduzione dei film in tv. No alla fine della libera concorrenza». In questo clima infuocato è la Fininvest a proporre una tregua. Confalonieri, in un'intervista al «Corriere», fa sapere che si può «trattare per passare da tre reti a due». Veltroni gli tende pubblicamente la mano con un articolo su «Repubblica»: parla
  di un «regime transitorio» che consenta a Rai e Fininvest di possedere solo due reti per poi gradualmente raggiungere l'obiettivo «di avere una sola rete di proprietà per ogni operatore». Aggiunge che «la gravissima esposizione debitoria della Fininvest dovrebbe spingere ad immaginare un sistema più equilibrato, meno drogato dalla concorrenza spasmodica per l'audience e la pubblicità». La proposta al Polo delle libertà sembra piacere. Berlusconi, è vero, continua a ripetere di voler andare alle urne perché per lui i referendum equivalgono a un «giudizio di Dio». Poi, quando il 23 aprile il centrodestra perde 9 regioni su 15 alle amministrative, si rabbonisce. L'immagine di Emilio Fede che, a tarda sera, stacca le bandierine azzurre dalle undici regioni frettolosamente assegnate al Polo dal sondaggista aziendale Luigi Crespi, per rimpiazzarle con quelle rosse, è dura da digerire.
Il 2 maggio il Polo sceglie i negoziatori: Gianni Letta, Giuseppe Tatarella e Clemente Mastella (che in quel momento sta con Berlusconi). Il «Corriere» rivela che tra Pds e Forza Italia c'è un accordo per chiedere agli elettori di astenersi. Botteghe Oscure smentisce. Il 16 maggio Vittorio Dotti, capogruppo di Forza Italia, presenta una proposta di legge antitrust alla commissione Napolitano. D'Alema si dice ottimista: «C'è una soluzione
  in cantiere, forse in arrivo». Ma la Lega non ci sta. Per Bossi, in quel periodo, Berlusconi è «il mafioso di Arcore», il «palermitano che parla meneghino» e che avrebbe fatto i soldi «con il traffico di droga» e «il riciclaggio
  del denaro sporco». Il 10 febbraio, al Forum di Assago (Milano), il congresso del Carroccio si trasforma in una kermesse antiberlusconiana. Bossi definisce l'ex e futuro alleato «il Frankenstein della destra, il mostro partitocratico con una gamba fascista». Dice che le sue tv «sono nate con i soldi di Cosa Nostra». Promette: «Prima o poi gli faremo saltare i tralicci». E ancora: «Richiamo le istituzioni a verificare se, nei confronti della Fininvest, non esistano gli estremi della ricostituzione del partito fascista. Se così fosse, si proceda all'oscuramento
  di quelle televisioni». Insomma, vuole il referendum a tutti i costi. Gli altri però trattano. A tappe forzate. Ma il 22 maggio Berlusconi rovescia il tavolo. Dotti annuncia in Parlamento che il tempo è scaduto. Si va al voto.
  L'indomani Elio Veltri, all'epoca molto vicino ad Antonio Di Pietro, incontra D'Alema a Botteghe Oscure. Mentre parlano, arriva una telefonata di Gianni Letta per annullare un nuovo incontro fissato per discutere ancora dei referendum. D'Alema definisce Letta «untuoso». Poi però se la prende con Bossi: per lui è colpa della Lega e delle sue minacce di ostruzionismo se tutto è andato all'aria. «Guarda, Bossi è matto» dice il segretario del Pds a Veltri, mostrandogli un foglio. Sopra c'è scritto che la Fininvest avrebbe dovuto rinunciare a una rete entro il 1996 e che poi il Garante avrebbe deciso se levargliene anche un'altra. «Sarebbe stata la resa di Berlusconi e invece rischiamo di perdere il referendum, ma Bossi è matto e vuole solo vendette», commenta D'Alema, seriamente convinto che
  Berlusconi volesse trattare davvero. In realtà il gioco del Cavaliere è stato molto più astuto. Il tira
  e molla ha evitato una seria campagna referendaria della sinistra per il Sì, mentre le reti Fininvest e i comitati per il No continuavano a martellare in campo libero. Alla fine sembra rendersene conto anche Veltroni, che il 6 giugno ammette: «Berlusconi non ha mai avuto intenzione di arrivare a un accordo». Poi, quando gli chiedono perché il Pds non abbia praticamente fatto campagna elettorale, risponde: «Il Sì non ha fatto la campagna elettorale che molti si aspettavano, quella contro Berlusconi. Per il resto penso che in molti non andranno a votare perché è assurdo far decidere col referendum materie che potevano essere fissate in Parlamento».

Inciucio. Come la sinistra ha salvato Berlusconi. La grande abbuffata RAI e le nuove censure di regime, da Molière al caso Celentano. L'attacco all'Unità a l'assalto al Corriere. (Peter Gomez e Marco Travaglio, prefazione di Giorgio Bocca, 2005, BUR Biblioteca Universale Rizzoli)

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